Uno dei presagi di morte più temuti era senz’altro il canto de s’astria, che nella credenza popolare aveva la capacità di fiutare l’odore della morte, l’uccello notturno presagiva la morte di qualche abitante ove il suo canto si diffondeva. Altri presagi di sventura erano il latrato notturno del cane o un vento forte che preannunciava la morte.

Quando l’agonia del moribondo si protraeva per troppo tempo, si riteneva fosse a causa di alcune azioni compiute in vita che impedivano al malato di morire, e solo porvi rimedio poteva porre fine a quella lunga sofferenza.

Secondo la tradizione isolana, quando tutte le pratiche adottate non sortivano l’effetto desiderato e non aiutavano il moribondo, per porre fine alla sua sofferenza si ricorreva alla controversa e misteriosa figura de s’accabbadora, letteralmente “colei che finisce”, che con un atto di pietà favoriva il trapasso di malati e moribondi.

S’accabbadora è avvolta da un’aura di mistero tanto fitta che non vi sono prove reali di questa forma di eutanasia tacitamente tollerata, tanto meno è possibile dire se Guspini abbia conosciuto realmente questo enigmatico personaggio.

Se durante la sua vita la persona aveva bruciato o perso un giogo di buoi, si credeva che l’agonia sarebbe terminata solo una volta posizionato sotto il letto lo stesso oggetto o una parte di esso.

Bisognava inoltre fare attenzione alla posizione del letto, che normalmente non era mai rivolto con i piedi verso la porta, poiché questa era la posizione in cui dovevano essere posti i defunti pronti a intraprendere il viaggio verso l’aldilà, o coloro la cui agonia si protraeva per molto tempo.

Quando arrivava la morte attorno alla famiglia del defunto si stringeva tutta la comunità e il lutto prevedeva una serie di consuetudini e rituali che fino a non molto tempo fa erano rigidamente rispettati.

Quando i parenti si rendevano conto che il malato era in punto di morte, chiamavano il prete “po donai s’ollu santu”, il sacramento dell’unzione degli infermi.

Per prima cosa, prima del cordoglio, veniva lavato il defunto e il viso coperto da un fazzoletto affinché eventuali movimenti non spaventassero chi si sarebbe occupato di vestirlo per il funerale.

In generale si metteva su “bistiri bellu”, il vestito buono, che poteva essere l’abito delle nozze o il vestito della festa. Il defunto veniva spogliato di ogni gioiello, in particolare le donne sceglievano la persona che avrebbe tolto loro gli orecchini poiché questa li avrebbe ereditati.
A tutti indistintamente veniva messo tra le mani un crocifisso di legno, insieme ad altri oggetti rappresentativi delle eventuali confraternite o associazioni religiose o civili, di cui in vita era stato membro.

Gli specchi e i mobili di casa venivano coperti con teli neri “ammantai”, e poiché non si cucinava, era il vicinato o i parenti a provvedere ai pasti principali, per alleggerire il lutto e manifestare vicinanza.

Nelle ore che seguivano la morte, i parenti e gli amici del defunto si riunivano a vegliarlo giorno e notte senza lasciarlo mai solo. Alcune prefiche, dette “attitadoras”, intonavano “s’attidu” (il pianto) e recitavano il rosario al capezzale del defunto, creando un clima di grande pathos.

Le campane suonavano a morte con tocchi sordi, lenti e angosciosi, informando il paese della morte del compaesano, e potevano suonare anche per tutto il giorno del funerale, in base all’entità della donazione fatta dalla famiglia.

Allo stesso modo suonavano durante tutta la processione funebre, mentre la confraternita, che si occupava dei funerali, trasportava la bara in spalla per tutto il tragitto fino al cimitero. Nella processione veniva trasportato anche un tavolino in modo da adagiarvi la bara e consentire un attimo il riposo ai portatori. Anche di fronte alla morte le differenze di ceto si facevano sentire: per il funerale dei poveri il prete portava la croce di legno, per i ricchi la croce in argento.

Al funerale partecipavano tutti i parenti tranne la vedova, che aspettava a casa le visite di condoglianze. La vedova non usciva di casa fino alla messa del trigesimo. Il colore del lutto era il nero, che copriva mobili e specchi, tingeva fazzoletti e incorniciava il viso delle donne, che a loro volta tingevano di nero tutti i loro vestiti. Gli uomini esternavano il lutto con un bottone nero sulla giacca o una fascia nera sul braccio e non li toglievano prima che fosse decorso un certo tempo. Allo stesso modo, la donna poteva portare il lutto anche per tutta la vita, indossando un vestito nero, il fazzoletto nero, e lo scialle nero sul capo fatto scendere sul corpo.

Si ringrazia per le testimonianze e le referenze fotografiche Claretta Lampis, Raimondo Boi, Iride Peis, Giandomenico Serra, Franca Pittau, Rosetta Casu, Pinuccia Dessì, Antonio Seruis, Rossella Dessì e il partner del progetto Roberto Maccioni.

Bibliografia

  • Agus, T., Lampis, C. (1992). Guspini cronistoria e immagini. Edizioni Tre T di Gianni Trois.
  • Orrù, R., Muscas, M. O. (2014). La vita in Sardegna. Grafica del Parteolla.
  • Turchi, D. (2016). Le tradizioni popolari della Sardegna tradizioni italiane. Newton Compton editori.

Progetto a cura di

Giulia Uccheddu

Alessio Seruis

Stefano Pusceddu